Cannella: di nani, pelli e scoperte inattese

L'immagine del catalogo è quella del cosiddetto “Appartamento dei nani”, lo spazio del Palazzo Ducale di Mantova fatto realizzare da Ferdinando Gonzaga nel Seicento, che riproduceva in miniatura la Scala Santa di Roma a San Giovanni in Laterano.

Il beige degli ambienti ritratti è quello della collezione di terra cruda Cannella: una nuance molto particolare, simile ai toni della tipica pelle di camoscio usata per pulire le auto (la collezione, prima, si chiamava proprio Camoscio).

Ripensandoci oggi, però, non era forse la scelta più giusta. Oltre che per la coerenza estetica e cromatica, avevamo scelto quella foto per la sua forte carica teatrale: i nani non si vedono (né ci sono mai stati), ma evocano le maschere di una leggenda via via costruitasi nel tempo. A questa terra si legano però anche altre maschere, altri colori. Occorre perciò fare un passo indietro.
Esiste un'associazione nazionale a cui sono iscritti i comuni che hanno un patrimonio architettonico o archeologico rilevante in terra cruda. Fondamentalmente, sono tre le aree interessate. Una è in Abruzzo, tra Pescara e Chieti; in particolare nella zona di Casalincontrada, un piccolo comune dove si trova il “Centro di documentazione sulle case di terra cruda”. L'altra è in Piemonte, nell'alessandrino. La terza è il Medio Campidano, in Sardegna: una zona molto particolare per la natura e la conformazione geologica.
La terra impiegata per Cannella, una delle prime che abbiamo mai utilizzato, proviene proprio da una cava in quella zona. Oggi cinque delle nostre quattordici varianti di argilla vengono dalla Sardegna: un territorio a cui siamo molto legati; una vera culla della terra cruda.

Negli ultimi anni mi ci sono recato molte volte, anche perché col tempo lì si è creato un autentico fermento culturale sul materiale, alimentato anche dalla Facoltà universitaria locale, con cui collaboriamo (in particolare con la professoressa Maddalena Achenza).
Oltre a essere una delle zone minerarie più ricche d'Italia, la Sardegna è dotata di un terreno particolare, molto ferroso: ed è proprio l'ossido di ferro, in differenti conformazioni chimiche – di ossido ferroso, ossido ferrico, oppure ossido di ferro – la componente che più determina le qualità cromatiche dell'argilla. In quell'area è per l'appunto disponibile una gamma di tonalità molto ampia: dalla stessa cava è possibile estrarre quattro o cinque sfumature differenti.
Una caratteristica molto differente rispetto a quella tipica delle argille alluvionali della Pianura Padana, portate a valle come detriti dalle Alpi e dal Po, e prive di una grande varietà di colori.

Anche la nostra nuova start-up, prevista dal progetto di società benefit, avrà sede in Sardegna: scelta dovuta in parte al fatto che da questa zona proviene la gran parte della materia prima che utilizziamo; in parte perché questo è un modo per essere più vicini al territorio. Ancora non conosco la Sardegna quanto vorrei e, al di fuori di ragioni di lavoro, credo di esserci stato non più di un paio di estati, in vacanza.
A una di queste è però dovuto un ricordo molto vivido. Mi trovavo con i miei due figli, ancora piccoli (avranno avuto sei e otto anni), dalle parti di Arbatax. Un po' per caso, eravamo capitati in una festa paesana: una specie di sagra simile a un carnevale. Ricordo che ci eravamo messi a lato di una strada comunale, da dove ci avevano detto sarebbero passati i mamuthones – le tipiche maschere locali –: era un'occasione unica per vederli dal vivo. Ci disponemmo così con impazienza a bordo strada; i bambini si erano seduti tranquilli ai miei piedi. L'attesa non fu lunghissima, ma il caldo e la tensione nell'aria la facevano sembrare più vibrante.
A un tratto, li vedemmo. Arrivavano spuntando dalla curva, con le maschere nere lucide e tirate e le pelli di pecora, ispide e ancor più nere. Sobbalzando, scuotevano vigorosamente i campanacci fissati sulla schiena alle pelli, producendo dei suoni acuti e ridondanti, quasi ipnotici. Ricordo che, per la paura, i bambini si erano stretti forte alle mie gambe, che non lasciavano più.

Più tardi, passata la tensione intensa della sfilata, saremmo andati a vederli da vicino. Si erano già tolti le maschere e scoprimmo così che, sorprendentemente, erano tutti ragazzi molto giovani. I loro volti, madidi di sudore, mostravano ancora tutta la loro sofferenza: nonostante fosse ormai sera inoltrata, ci saranno stati oltre 30 gradi e avranno avuto addosso 30 kg di costume, tra i campanacci e la pelle di pecora. Nonostante apparissero completamente distrutti dallo sforzo, ricordo in maniera nitida lo spirito che riuscivano a trasmettere, la forza che traspirava in ogni loro gesto, rallentato dalla stanchezza. Mi apparivano quasi divinità pagane, e averli davanti mi impressionava un po'. Nell'osservarli, ripensavo a come quei riti fossero antichi e ancestrali, come la terra, il ferro, il fuoco. Mi venne un leggero capogiro, e l'assurda impressione di trovarmi, in quell'istante, al di fuori del tempo. Per lavorare la terra che calpestiamo, mi dicevano quei volti asciutti e tirati, occorre essere primitivi e brutali come la terra stessa; come Efesto, che col ferro e fuoco forgiava le armi di Achille. Perché, alla fine, la natura della terra è questione di ferro e fuoco, di temperatura e di pressione: dalla loro azione si sono generate la crosta terrestre e i minerali; ma anche l'argilla stessa, sottoposta rispetto alla roccia a un minor intensità di tali fattori.
Oltre che originaria, la terra è anche però esito finale di un processo, inizio e fine della materia, visto che si produce attraverso la disgregazione delle rocce e del materiale organico, che frantumandosi, diventano ghiaia, poi sabbia, poi limo e alla fine argilla.
“Con il sudore della fronte mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”
Così si legge nella genesi. La materia delle origini, da Adamo ed Eva in poi, e da cui parte ogni gesto artistico, è anche l'esito a cui tutto torna, compresi i manufatti più preziosi. Mi affascina sempre l'idea di aver a che fare con un'essenza tanto generativa: sia che si tratti di dar vita a un nuovo prodotto, a una nuova impresa, o magari semplicemente di rintracciare le sfumature di un nuovo colore. L'albero da cui viene la cannella è originario di Cylon (l'odierna Sry Lanka): un luogo dal cui nome si dice derivi il termine che definisce la scoperta occasionale e inattesa, detta: “cingalismo”, o “serendipity”. La scoperta di Cannella, con le sue tonalità argillose simili alla spezia orientale, avrebbe poi portato a tante altre scoperte, legate a un territorio e alla sua cultura. A volte, ad alcune più inattese di altre; come quella nascosta dietro maschere nere, in una notte nera di mezza estate.
