Cipria: il trucco del colore

Il mio primo ricordo della cipria viene da un lontano passato. Per la precisione, dalla tolettina di mia nonna, sulla quale troneggiava il tipico contenitore col tappo d'argento e il tradizionale batuffolone rosa per spargere il trucco sul viso. Un oggetto che rappresentava già di per sé la bellezza femminile, e che sprigionava una polvere antica e delicata.

Cipria è anche il nome dell'ultimo tra i colori raccolti nel catalogo realizzato per Matteo. È stato sperimentato per la prima volta nella ristrutturazione di un casale in Toscana, in cui abitavano Mikael Jansson e sua moglie Lotta: in quel caso, partendo dal Cipria per poi ‘sporcarlo’ con stratificazioni Vinaccia e Melograno. Un progetto bespoke, appositamente sviluppato dedicando grande attenzione ai colori e alle luci: scelta dettata dalla necessità di corrispondere alla grande sensibilità fotografica di Mikael. Il lavoro, sviluppato insieme all’Ufficio Ricerca di Matteo Brioni, si sarebbe poi rivelato davvero molto complesso, tanto da sembrare a volte infinito.

Tutte le stanze erano caratterizzate da una dominante cromatica differente, che accomunava la finitura delle pareti ai colori delle porte e delle finestre. Capimmo così che la tonalità di terra cruda avrebbe necessitato di una tonalità graffiata, più sporca e “cattiva”, in armonia con il carattere degli interni e con il paesaggio della Val d'Orcia, su cui si affacciava il casale. Sul piano personale, il progetto mi permetteva anche di portare a maturazione una scelta precisa sul colore, in netta controtendenza rispetto alla moda che allora imperava nell'interior design: la passione per i colori morbidi e delicati, a volte troppo (soprattutto l'insopportabile rossino, che si trovava ovunque). Sarà per un mio vezzo, ma sono sempre stata contraria all'inseguire le tendenze dominanti, o le scelte eccessivamente dettate da uno stile. Gli inserti di rosso acceso nel composto generavano invece un effetto materico, che trasformava il colore originario in una tonalità più reale e profonda, con un effetto accennato quasi tridimensionale.

Al centro di questa trasformazione stava la tecnica del Wabi-Sabi, che prevede la ricerca di una bellezza legata all’imperfezione, all’incompletezza propria alle cose naturali. Una qualità che avrebbe dato il nome a un'intera linea di finiture in terra cruda, il Terra Wabi, alla quale appartengono, oltre al Cipria, anche il Vinaccia, il Cammeo e il Melograno (il più forte di tutti). Quattro colori diversi, che provengono da altrettante terre e luoghi differenti, e che ho applicato in diverse occasioni, anche mixandoli tra loro. Nel passaggio tra la parola femminile “cipria” e il nome maschile “Cipria” è sintetizzata una variazione di genere che non si limita al cambiamento da un materiale a un altro, o da un contesto di applicazione “cosmetica” a un altro. Da questo punto di vista, il Cipria assomiglia al classico “cerone” settecentesco, o all' imbellettamento di tanti personaggi televisivi di oggi. Quando il trucco procede per strati, il suo effetto diventa totale, diventando talmente coprente sul volto da cambiarne quasi l'identità.

Quando sviluppo progetti identitari per un brand, come prima cosa ne individuo i caratteri principali; parole chiave in cui l'azienda si deve esprimere. A un certo punto del processo, lascio fuori la stretta anamnesi aziendale e procedo verso l'esterno, metaforicamente parlando. Intercettando una cultura di impresa già preesistente, l'art direction è sempre condotta a due mani con l'azienda; i progettisti devono soprattutto puntare a orientarla verso un progetto diverso. L'imprenditore è una figura solitamente immersa all'interno del proprio mondo, che non si da quasi mai il tempo di guardare all'esterno. Il processo di rebranding permette di fare – per usare un'immagine astratta – un salto all'esterno, che consente al marchio di riposizionarsi poi all'interno. Per certi versi, ogni impresa assomiglia un po' al batuffolo della cipria, quando esce dalla sua scatola.
