Fango: una cosmesi con stivali e badile

Era il ’94 e c’era stata una grossa l'alluvione in Piemonte: il Tanaro era straripato, devastando l'area compresa tra Alba, Asti e Alessandria. Vedevo al telegiornale quei paesaggi colpiti dall'onda di piena, i dissesti idrogeologici, le cascine allagate, i volti in lacrime di persone che avevano perso tutto. Mi colpivano nel profondo, non solo per la drammaticità in sé, ma anche perché tutto era incredibilmente familiare: a tratti mi sembrava che quei video fossero stati girati nei miei luoghi d'origine, attorno a Gonzaga.

Era un venerdì: quel giorno sarei rientrato a casa per il fine settimana, come facevo sempre da quando studiavo architettura a Firenze; questa volta, però (forse perché non avevo tutta questa voglia di studiare), senza nemmeno rifletterci tanto su, pensai: “vado”. Appena arrivato a casa incrociai mio padre e glielo dissi, di slancio: “Vado in Piemonte”.
“Ma cosa ci vai a fare?”, mi rispose.
Lo conoscevo, però: quello scetticismo era solo di facciata, era sempre stato un grande idealista e ci sarebbe andato lui, al posto mio. Poco dopo, infatti, mi avrebbe consegnato un badile nuovo, prima di salutarmi. Mentre ero alla stazione, in attesa del treno per Asti mi si avvicinò uno del paese, che conoscevo.

“Dov'è che vai, con quel badile?”, mi apostrofò. “In Piemonte, a spalare fango...”.
Mi guardò con un'espressione di scherno, come si fa con uno che ha molto tempo da perdere. A dire il vero, la stessa espressione mi avrebbe accolto anche sul volto di un addetto al comitato locale di soccorso, seduto a un banchetto.
“Buongiorno”. “Buongiorno”. “Sono qui per aiutare, per spalare un po’ di fango”. “Ah, e con chi sei?” “Da solo”. “E dove dormi?”
(Non ci avevo pensato, non avevo neanche il sacco a pelo…) “Eh, veramente non ho alloggio...”. Ed ecco allora di nuovo quella smorfia, come per dire: “Ma torna a casa, dai: cosa vieni a fare qui...”. Per fortuna, allo stesso banchetto c’era un altro operatore che, forse vedendo che il mio gesto era spontaneo, mi disse: “Va bene: stasera vieni a dormire a casa mia, poi vediamo. E adesso, vai spalare”.

Così, mi aggregai a una squadra di soccorso incaricata di ripulire una cascina lì vicino, dove saremmo stati impegnati per tutto il giorno. L'indomani invece ci mandarono a spalare in un hotel a cinque stelle in centro, i cui garage seminterrati erano completamente allagati. Lavorando, osservavo le auto intrappolate, tutte di grossa cilindrata, e così pian piano mi si materializzò un pensiero: “saranno assicurate per tutto, e probabilmente ai proprietari non importa nulla del fatto che io sia qui a spalare”.
Avrei voluto fare qualcosa di utile per quella gente che avevo visto piangere in televisione, invece mi trovavo lì, tra file di BMW e Mercedes immerse nel fango, rendendomi conto che l'immagine di aiutare soltanto persone disagiate era stata del tutto idealizzata, figlia del bisogno di rendermi utile.
In quel garage, però, filtravano anche altre sensazioni. La terra che si estendeva ovunque non aveva la solita tonalità rosso-brunita della tipica argilla piemontese. Era invece di un grigioverde omogeneo e quasi ipnotico: il colore dell'argilla locale, conosciuta anche come illite, composta per lo più da sedimenti vegetali decomposti e da minerali essenziali, come il silice, l'alluminio, il potassio e gli ossidi di ferro. Con la stessa terra, oggi, realizziamo una collezione di finiture: la materia prima proviene da Felizzano, nell'alessandrino.

La prima volta che mi recai a visionare la cava di estrazione, il proprietario (un autentico scavatore, che sembrava provenire direttamente dall'ottocento) mi disse che quell'argilla era utilizzata anche per i trattamenti di bellezza nei centri estetici. Si trattava infatti di una variante “ventilata”, dotata di una granatura più fine di quella della comune argilla grigioverde o verde: caratteristica che le permette di aderire meglio alla pelle. Peraltro, continuava a informarmi, la sua argilla veniva anche utilizzata da un maneggio del posto per realizzare impacchi curativi per le zampe dei cavalli infortunati.
L'applicazione cosmetica o terapeutica dell'argilla si basa su aspetti completamente differenti rispetto a quelli più importanti per l'uso in edilizia, e per questo non avevo fino ad allora considerato più di tanto queste qualità del materiale. Così, nei mesi successivi, dedicai parecchio tempo a documentarmi sull'argomento, anche recandomi di persona a diverse fiere specialistiche.
Ricordo che, a una di queste, a Bologna, ebbi modo di confrontarmi con un medico che proponeva un metodo curativo basato proprio su un'argilla grigioverde praticamente identica a quella che avevamo adottato noi. L'unica differenza significativa tra i composti base era semplicemente costituita dal fatto che quello destinato alla cosmetica veniva sterilizzato mediante un procedimento a vapore, molto semplice. Mi complimentai dunque con lui, facendogli notare che era riuscito a massimizzare il valore della materia prima, adottando un prezzo di vendita pari esattamente a cento volte rispetto a quello che proponevamo noi.
Nel tempo, avrei compreso che il tema della cosmetica poteva avere implicazioni davvero ampie, nell'interpretazione architettonica dell'argilla. Nella sua radice originaria, infatti, la cosmesi va relazionata al cosmo, intesa come “filtro” protettivo dai raggi solari, ma anche come “maschera”. Nell'antichità, veniva usata per riprodurre sul volto le fisionomie delle divinità celesti: in Egitto, in Grecia, a Roma; e lo stesso fanno gli aborigeni australi, ancora ai giorni nostri. Attraversando secoli e culture, divenendo sempre più raffinata e rarefatta, quell'interfaccia simbolica si mantiene ben viva e presente, anche in mondi tra loro molto differenti.

Ma cosa succede veramente all'essenza “cosmetica” dell'argilla, mi chiedevo allora, una volta che questa viene distesa sulla “pelle” dell'architettura? Può mantenere almeno parte delle qualità che le vengono riconosciute in altri contesti? A pensarci bene, quando ero andato a spalare fango in Piemonte l'argilla aveva subito una trasformazione anche per me, che almeno per qualche giorno l'avevo guardata in un modo completamente diverso. La materia che aveva invaso ogni superficie in maniera tanto aggressiva non aveva nulla di cosmetico, e men che meno di curativo: piuttosto il contrario.
Eppure, di quei momenti mi era rimasta impressa, nitida, l'immagine dell'argilla che spargeva ovunque il proprio colore grigioverde, simile a quello di un fiume in piena. Lo stesso colore dell'argilla di Felizzano, e della finitura che, diversi anni dopo, avremmo chiamato: “Fango”, con la “F” maiuscola. Tutto sommato, anche in questo caso si sarebbe trattato di una piccola cosmesi (anche un po' curativa).